sabato 10 dicembre 2016

 Stiamo tornando da un allenamento di calcio, sono le 19:30 di Lunedì e fa un freddo cane qui nella buia Varsavia. Loro, i ragazzi, prima di giocare hanno dovuto rompere il ghiaccio, non spalare la neve, ma rompere il ghiaccio per rinvenire qualche metro quadro di campo. L'allenatore dell'Academy Warszawa, dove gioca Giovanni, mi dice che il club è povero, e non si possono permettere di pagare tutti gli allenamenti al coperto, quindi: un allenamento al caldo in una palestra, uno al tiepido in un pallone gonfiato, e uno al freddo in un campo ghiacciato.
Dopo l'ora e trenta minuti di allenamento nella cella frigorifera Giovanni è di fianco a me in macchina, ho acceso il riscaldamento a manetta, ha le mani intorpidite dal freddo, e sta bevendo del tè caldo, mi dice che è la cosa più buona che abbia mai bevuto.
Così iniziamo a conversare con la domanda di rito, gli chiedo come è andata a scuola. Mi racconta che hanno parlato della guerra fredda. Qui in Polonia è un tema ancora molto presente. I polacchi non hanno ancora digerito il massacro dei tedeschi, l'opressione dei russi, e il disinteresse per la loro causa dopo la grande guerra da parte degli americani e inglesi. Come dargli torto!
Sono fermo ad un semaforo, fuori è buio, Giovanni guarda dal finestrino le persone bardate nello loro giacche. Dopo qualche minuto di silenzio mi chiede "ma durante la guerra fredda come morivano i soldati?", gli ricordo le storie delle spie viste recentemente a Berlino. Giovanni mi guarda e mi dice: "meno male, pensavo che fossero morti per il freddo"