mercoledì 12 settembre 2001

La Palestina da ieri non è in medio oriente ma a Manhattan. Anche questo è un prodotto della globalizzazione. Per chi ha voluto chiudere gli occhi in questi anni pensando solo ai vantaggi dell’economia è necessario che si svegli: da ieri siamo in guerra.

Una guerra voluta da chi a Durban ha ostentato superbia, da chi di Kyoto ha voluto farne carta straccia, da tutti quelli che a Genova hanno giocato con le parole, da chi si è sottratto in tutti questi anni agli unici possibili strumenti per edificare la pace: il dialogo e il rispetto. Diversamente come si devono interpretare le navi militari che ogni giorno presidiano le coste dell’Europa? gli aerei della NATO che agiscono indisturbati sul Kossovo? La caparbia ostilità nei confronti degli immigrati? Sono delle provocazioni. Erano e sono le prove generali di una catastrofe.

Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa del genere. Dopo le prime reazioni incredule ci siamo dovuti rendere conto che era vero, ma vero cosa? Che le nostre democrazie hanno i piedi d’argilla e non perché sono incapaci di prevedere simili attentati, ma perché hanno tradito i valori fondanti di ciò che sono chiamate a fare: pace e felicità per tutti, ma non a scapito di qualcuno.

Se ce ne fosse stato bisogno, quella di ieri è la dimostrazione che progetti faraonici come lo scudo spaziale non servono a nulla se non ad alimentare le casse dell’industria militare. Probabilmente non sarà sufficiente nemmeno intensificare i controlli degli aeroporti, l’unica via d’uscita sono i calumè della pace, e gli americani nella loro storia ne hanno fumati troppo pochi. A Bush occorre chiedere con forza e convinzione di dimostrare tutta la potenza dell’America chiedendo di impegnandosi a fare quello che a Camp David avrebbero dovuto fare i palestinesi con gli israeliani: trovare la via diplomatica per la pace. Purtroppo mi aspetto che l’America dispieghi tutta la sua inferiorità politica. E’ noto che la forza politica è inversamente proporzionale alla forza militare.

Noi che crediamo nella pace abbiamo l’obbligo di chiedere e pretendere che un fatto così barbaro e assurdo si trasformi in un segno di speranza. Abbiamo l’obbligo e il dovere di stare al fianco degli americani segnati dal dolore di questi giorni, non offrendo a loro un appoggio militare ne alimentando l’ira, ma il sostegno morale e la fermezza nel combattere questo stato delle cose. Abbiamo l’obbligo e il dovere di trovare il modo di isolare personaggi come i mandanti di queste stragi e far percepire alle persone di tutto il mondo, anche a quelli che sono scesi in piazza ad esultare, che di questi pazzi seduti sulle montagne dell’Afghanistan non ne abbiamo assolutamente bisogno. Per uscire da questo tunnel nel quale ci stanno infilando occorre smetterla di inseguire l’economia e ridare fiducia ad un progetto di società che metta al centro l’uomo, anzi gli uomini.

Ma al di là di queste necessarie precisazioni, che a qualcuno potrebbero sembrare naif, occorre riconoscere che l’incontro, il dialogo, le relazioni spesso sono interpretazioni ancora nostre, di noi occidentali, su come si edifica la pace. Non so quanti di noi provano tutti i giorni a parlare con “gli altri” a cercare di stabilire un rapporto. Non solo non è facile, ma spesso ci si trova difronte a muri che sono costruiti sia perché “noi occidentali siamo tutti cattivi” sia perché si parlano lingue diverse (Franz Boas, antropologo americano, riteneva che la lingua di un popolo ne condizionasse il pensiero). Non dobbiamo nascondere che anche nel mondo islamico esiste chi pensa che sia possibile fare pace solo dopo aver fatto la guerra. Quanti di noi riescono a stabilire rapporti profondi e duraturi con le comunità cinesi presenti nel territorio in cui si vive? Chi è disposto ad avere una comunità di africani come vicini di casa con quello che comporta: musica e odori? Avete mai provato a spiegare il nostro senso di legalità ad un albanese? E’ strano ma se provate a proiettare nella cultura di appartenenza tante delle cose che sembrano assurde diventano coerenti. Libertà, uguaglianza e fraternità sono valori a cui sento di non potere fare a meno, ma questo deve valere per tutti gli abitanti della terra?

Io sono pronto a scommettere che la “comprensione di sé passa attraverso la comprensione dell’altro” (Paul Ricoeur) ed è questa la vera ricchezza del genere umano. In questi anni ho visto e sentito cose, dai pendolari della cooperazione così come dalle multinazionali, che in nome di una presunta verità assoluta o dall’alto dello sviluppo occidentale, stanno tutti i giorni annientando questo patrimonio. Lasciamo l’africa agli africani.

Insieme all’atto di denuncia delle azioni terroristiche e delle possibili reazioni americane occorre abbinare una buona pratica: quella di lavorare sul territorio. Occorre riscoprire a tutti i livelli del senso di fare politica. Basta con le reti, retine, io sono pronto a scommettere che se qualcosa di buono verrà in futuro sarà partorito da chi tutti i giorni è con ¨gli altri¨. Le nostre società devono imparare a tenere conto anche degli ultimi, dei diversi, e non solo dei primi.

Così come gli americani non sono Bush, anche se lo hanno eletto, gli afghani non sono Bin Laden, è questa la triste verità delle nostre democrazie e a maggiore ragione delle dittature di qualsivoglia latitudine nel mondo ed è su questo punto che occorre spingere la riflessione. Io sono pronto sommettere su una riforma che sperimenti forme di democrazia partecipativa, non dobbiamo dimenticarci che la democrazia costa fatica.

Ma a pagare il conto è sempre la povera gente. Che colpe avevano i 5.000 morti a New York? Che colpe avevano gli iracheni nel ’92? Che colpa avevano i ruandesi? I tibetani? E che colpa avranno gli afghani? Forse nell’aver creduto nell’invincibilità della “megamacchina” (Serge Latouche) e nel non credere che la pace ha bisogno di uomini di buona volontà (Giovanni Paolo VI ), e aggiungo di intelligenza qualità che di questi tempi scarseggia. O forse, molto più semplicemente, occorre ridare vigore a un pensiero così profondo e nello stesso tempo leggero e più lento (Alexander Langer) che ci rammenta di fare l’amore e non la guerra, ricordandosi, questa volta, di usare il preservativo, perché di questi tempi occorre avere coraggio a pensare di mettere al mondo un figlio.
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