martedì 18 settembre 2001

Io a Genova ho deciso di non andare.


Innanzitutto ho bisogno di sentire sulla pelle quel brivido che mi sprona a impegnarmi in una impresa soprattutto se questa ha i connotati dell’utopia. Non posso aderire solo con il cervello ho bisogno di emotività, di coinvolgere la sfera dei sentimenti altrimenti una parte di me non collabora. Ho bisogno di sentire la positività dell’impresa, di sentirne l’energia. Genova è stata costruita da una parte come dall’altra su una serie di messaggi: assurdi, violenti e volutamente provocatori. A questo non partecipo.

Il senso di una radicale ricostruzione della società sta nella capacità di interpretare i bisogni e di proporre dei percorsi per l’elaborazione partecipata di soluzioni; ciò può essere fatto solo a condizione che si sia capaci di condividere tempo, spazio e idee con le persone che vivono in un territorio. Occorre essere capaci di tessere relazioni con gli imprenditori, le casalinghe, gli studenti, i barboni, gli stranieri, le prostitute, ecc... è questa la reale novità di una proposta politica a cui sento di aderire e che vorrei costruire. A Genova si scrive “mondo di mondi” e si legge “un mondo di orti”, sono contento del fatto che la rete di Lilliput si trova a marciare con i giovani comunisti ma occorre riconoscerne i limiti. A Genova è stato edificato un muro per cui tante delle persone che prima erano sensibili a certi problemi hanno avuto modo di potersi confondere. Su Genova si è detto di tutto tranne che parlare dei contenuti: la radicale ricostruzione della società in forma razionale, ecologica e comunitaria. A Genova si è perso il lavoro di tanti anni sul territorio, per cui oggi sei a favore o contro. A queste semplificazioni non ci sto. La nostra è una società complessa, non dobbiamo commettere l’errore di ridurre a die paradigmi, per quanto consistenti ed evocativi, la soluzione die problemi legati al vivere insieme. Occorre riconoscere che nessuno possiede ricette che possono essere considerate come la panacea di tutti i problemi e soprattutto che ogni soluzione deve fare i conti con il territorio nel quale si intende realizzarla.

Non nascondiamoci il fatto di non essere stati capaci in questi anni di creare un nuovo linguaggio, una nuova narrazione dei fatti, ogni tentativo che si stava facendo dopo Genova è reso più difficile; ci si muove in base ad un calendario stabilito proprio da coloro contro i quali si è contro, forse, se si fosse meno ossessionati dalle date dei potenti, dal prepararsi al prossimo evento, si riuscirebbe davvero a metter al centro le questioni reali. Ho l’impressione che è stato fatto un tuffo nel passato, romantico per qualcuno, mitico per altri, ma di cui conosciamo il futuro. Genova è stata una semplificazione e una scorciatoia, grazie alla quale abbiamo perso la possibilità di coinvolgere delle persone nella progettazione di una nuova società.

Occorre abbandonare la concezione secondo cui il processo politico è inteso come mobilitazione invece che educazione, come espressione di leader carismatici invece che di cittadini attivi, fino ad allora la politica, lungi dall’essere nuova, sarà la vecchia statualità autoritaria infiorata di mera retorica.

In questi anni mi è sembrato che il Coordinamento Comasco per la Pace in modo alle volte parziale, caotico, frammentario cercasse di portare avanti sul territorio questo progetto. Il mio impegno e la mia stima nei confronti delle persone che ho incontrato è stata alimentata anche da questo sogno. I convegni, i corsi sulla nonviolenza, i dibatti, le feste stagionali, oltrelosguardo e ancora gli strumenti quali il sito e la mailing-list stanno a dimostrare le energie spese a questo progetto. Una sintesi ancora embrionale fra essere contro e proporre qualcosa, il desiderio di elaborare un pensiero politico che tenga conto del parere di tanti, un laboratorio nel quale tanti di noi hanno trovato modo di creare una coscienza critica o più semplicemente un’occasione di confronto fra persone con idee anche diverse, un lavoro silenzioso di cui tutti noi iniziavamo ad apprezzare i risultati.

In questi mesi mi sembra che il fiorire di progetti come i social forum diano sfogo ad un altro bisogno, che trovo necessario e importante: quello di urlare il nostro essere contro. Non voglio dire che questo implichi l’impossibilità di poter elaborare un pensiero propositivo, ma ovviamente la necessità di dire tutti la stessa cosa magari con un timbro diverso. Questo non mi interessa. Questo non fa parte del DNA del coordinamento. Trovo che queste due strade debbano essere considerate parallele e non coincidenti, trovo che sia necessario trovare occasioni di confronto ma doveroso tenere il cammino ben distinto per non alimentare una confusione che risulta essere controproducente per tutti.