sabato 23 luglio 2016

Chiara ed io decidiamo di fare un sopralluogo di un paio di giorni a Varsavia, almeno per avere un tetto quando arriveremo con la tribu.
Lasciamo Lisbona in un caldo giorno d'estate, stranamente di suda, ed atterriamo a Varsavia in una fresca, fredda, sera d'autunno. Il volo che attraversa tutta l'Europa da sud-ovest a nord-est dura solo 4 ore ma è come muoversi attraverso le stagioni.

È un'esperienza che mette alla prova.
Già in metropolitana a Lisbona si erano avvertiti i primi tentennamenti, ho visto Chiara alzarsi alla fermata Parque, voler scendere ad una delle fermate che lei ha consumato in questi anni in cui abbiamo vissuto a Lisbona, ma quando siamo atterrati nella sperduta Modlin alle 22.00 di un freddo lunedì sera l'ho tenuta controllata a vista, ho avuto paura che potesse prendere il primo aereo per ritornare a casa, nella "sua Lisbona". Perché per noi adesso Lisbona è casa.
Il pulman che ci porta dall'aeroporto a Varsavia ha attraversato piatte, sconfinate distese d'erba prima di raggiungere il centro. Un centro diverso, una piazza enorme dove al tempo del comunismo i militari mostravano la loro forza con le parate. La piazza è caratterizzata da un regalo di Stalin al popolo polacco: il palazzo della cultura, un edificio mastodontico. È buio, ci muoviamo in fretta verso l'appartamento che abbiamo affittato. La città è poco animata e le luci dei grattacieli intorno al palazzo della cultura la rendono un pó ... diciamo ... fredda.
L'appartamento è in un condominio costruito al tempo del comunismo, austero, rigido. Ci sono pareti scrostrate, piastrelle bianche e nere, cavi della corrente a vista, uno stile un pó ... freddo.
Ho come l'impressione che con questo aggettivo, freddo, dovremo fare i conti.
Saliamo al decimo piano con un lento, scricchiolante, ascensore. Mi lascia il tempo per riflettere, lavorare sul senso di colpa che sento crescere.
Ad aspettarci c'è il giovane proprietario, che per la tuta che indossa, i muscoli che mostra sotto il giubbotto di pelle con le catene, non rende l'atmosfera accogliente, anzi direi un pó .... fredda.
L'appartamento è un cubo di 20 mq che si affaccia sui grattacieli illuminati di Varsavia. Vedere le insegne luminose delle marche più diffuse che avvolgono il palazzo della cultura dalla nostra stanza mi sembra curioso, quasi emblematico.
A dare il colpo di grazia è la risposta alla nostra richiesta di un posto dove andare a mangiare qualcosa di veloce, il tizio risponde che è tutto chiuso, ma è quello che aggiunge un modo lapidario, decisamente onesto ma anche cinico a ghiacciarci il sangue nelle vene, con un lieve ghigno sottolinea che: "non siamo mica a Barcellona!". Alcune volte la verità non ha bisogno d'essere colorata.
Decidiamo di sfidare l'evidenza, scendiamo con il lento ascensore e cerchiamo un ristorante. A salvarci c'è una pizzeria italiana gestita da polacchi, di buono c'è la birra che beviamo con quella che dovrebbe essere una margherita.
Andiamo a dormire.
Il giorno dopo accade qualcosa che cambia il ritmo.
Varsavia è illuminata dal sole, fa un pó più caldo, si sta bene, ma soprattutto veniamo sorpresi dalle persone con le quali entriamo in contatto. In ogni circostanza, dal cameriere all'agente immobiliare tutti sono molto genuinamente gentili. Visitiamo la scuola dove i bambini dovranno andare, ed alcune case dove forse dovremo vivere. Si aprono spiragli.
Varsavia è difficile da capire, è una città polifonica, ma ci sono zone in cui abbiamo sentito una bella musica.
La sera incontriamo Iza in un ristorante gestito da italiani, il "culinario", mi piace come si promuove, "cucina spontanea". Chiedo all'Alfredo, il proprietario, ragione della spontaneità e mi spiega che lui la mattina va al mercato e in base a quello che trova fa il menu della sera. Affondiamo le forchette in una buona pasta e ci raccontiamo storie di vite, speranze forse anche sogni.
La fredda Varsavia inizia a scaldarsi.