martedì 2 aprile 2019

Ho la barba lunga, la camicia a quadrotti, e indosso un paio di jeans sporchi. Calzo un paio di scarponi consumati che danno l’idea di essere la mia seconda pelle, quelli che ho usato anni fa per andare all’Everest base camp (http://breva-tivano.blogspot.com/search/label/Nepal2014). Sto cucinando il sugo su una stufa a legna, mentre in una pentola ho messo dell’acqua a bollire.
La stufa è sotto una finestra dalla quale si vedono le montagne, maestose. Intorno alla baita c’è il prato, mentre il bosco d’abeti inizia alcune centinaia di metri più in basso. Insomma manca solo Heidi.
Dalla familiarità con cui guardo le montagne deve essere da molto tempo che vivo in questo posto, dal livello di disordine deve essere che vivo solo. Mentre sto girando il sugo nella padella si apre la porta d’ingresso ed entra Giovanni, mio figlio. Dall’aspetto avrà poco più di vent’anni, è bello, un po’ pallido, sinceramente stanco.
Appoggia lo zaino per terra e mi dice “ciao papi!”.
Mi salutava sempre così quando era piccolo e tornavo dal lavoro la sera.
Sono felice, era da tanto che non lo vedevo, ci abbracciamo velocemente, e ritorno al sugo, trattengo a stento un gesto di felicità. Noi del nord d’Italia siamo emozionalmente stitici. Gli chiedo se vuole un piatto di spaghetti al pomodoro, mi ringrazia, dice di avere una fame da lupi.
Mentre finisco di preparare il pranzo lui si rinfresca ed apparecchia. Quando vivevamo insieme s’imboscava sempre prima d’apparecchiare, è evidentemente cresciuto.
Mangiamo in silenzio ma siamo contenti d’essere insieme, non servono le parole per dirci che ci vogliamo bene. Il pranzo consiste in spaghetti, pane, formaggio e un bicchiere di vino, che data l’occasione diventeranno tre.
Mentre stiamo finendo di mangiare Giovanni estrae dalla tasca un cellulare e mi mostra un video che ha girato di nascosto nella “farm della conoscenza”. La farm della conoscenza è un luogo dove migliaia di giovani come lui sono seduti su comodi divanetti modello Starbucks, consumano una bibita mentre usano un aggeggio simile ad un iPad. Tutto il giorno devono giocare ad un video game, i più bravi giocano anche di notte.
Con la farm della conoscenza devi firmare un contratto, tu giochi almeno 12 ore al giorno e loro si preoccupano del vitto, dell’alloggio, e di altri extra, ambigui e non meglio precisati.
Giovanni mi spiega che essere assunto nella farm della conoscenza non è facile, è un posto ambitissimo. La selezione è durissima, devi fare un test psico attitudinale e alla fine scelgono solo i migliori, quelli che hanno un modo di ragionare non convenzionale, originale.
Giovanni era stato scelto, ma una mattina, dopo aver giocato a fortnite giorno e notte, per 24 ore ininterrottamente, è stato male. È stato così tanto male da vomitare.
Giovanni si avvicina alla finestra, quella che dà sulle montagne e continua il suo racconto mentre io attento lo guardo. Mi racconta che mentre vomitava gli è venuta in mente una scena simile di qualche anno prima in Myanmar quando ancora bambino eravamo andati a fare un viaggio. Anche allora vomitò, ma mentre in Myanmar furono gli inconvenienti del viaggio, nella farm della conoscenza è stato a causa di un non-viaggio. Per stare male, conclude Giovanni, occorre avere delle buone ragioni.
Giovanni mi dice che questo incidente gli ha permesso di aprire gli occhi su cosa stava facendo nella farm della conoscenza. Un collega di cui presto si sono perse le tracce (l’hanno fatto sparire perché ragionava con la sua testa), gli aveva spiegato che il governo per evitare di avere problemi stava attuando un programma per annientare, cerebralmente, potenziali liberi pensatori.
Giovanni dalla farm della conoscenza è scappato.

La sera in cui feci questo sogno, prima di addormentarmi mi arrabbiai con Giovanni perché passò un pomeriggio intero a giocare a fortnite con un suo amico.
In pratica quella notte feci un sogno riparatore, quei sogni che ci aiutano a giustificare gli eccessi di rabbia nei confronti dei nostri figli.

Il giorno dopo il sogno ne ho parlato con un amico, Yasser. Yasser è musulmano, e mi ha raccontato di una pratica che ci aiuta ad essere più consapevoli delle nostre azioni, il digiuno. Dopo aver vomitato, per fare un po’ di ordine, un sano digiuno aiuta a riequilibrare il nostro corpo. Ma soprattutto Yasser sostiene che digiunare rafforzi la nostra forza di volontà.
Yasser di digiuno se ne intende.

Proibire l’uso della tecnologia non aiuterà i miei figli ad imparare a gestire la bestia.
Tanto meno sono utili i sensi di colpa o le frustrazioni di noi genitori, che inermi ci troviamo a combattere contro la bestia, che per altro divora anche noi.
Yasser pensa che si dovrebbe inserire la pratica del digiuno tecnologico. Per qualche giorno o settimana mettere la tecnologia sotto chiave, fino a quando non ne sentiamo più il bisogno. Questa pratica, se fatta quando la bestia s’impossessa di noi, dice Yasser, aiuta a purificarsi e ridare senso alle cose che hanno un valore, e sorridendo conclude “comprese le ragioni per stare male”.