domenica 2 luglio 2023


Sono 3 anni che pratico ashtanga yoga circa due volte alla settimana, con scarsi risultati. Non sono un uomo migliore, le mie debolezze non sono affrontate, e le asana che riesco a realizzare sono stitiche. L’unica soddisfazione che mi sono preso è stata quest’inverno a sciare, i miei giovani figli facevano fatica a starmi dietro. 

Così su suggerimento di Chiara decido di regalarmi un workshop con Peter Sanson, una sorta di “o la va o la spacca”, speriamo non in senso letterale. 


Giorno 1. Mercoledì mi rotolo fuori dal letto alle 6:15, la pratica con Peter inizia alle 6:30, giusto il tempo di lavarmi la faccia, mettermi la maglietta, i pantaloncini, bere un bicchiere d’acqua tiepida con il limone e salire in macchina. Per fortuna a quest’ora non c’è in giro nessuno e la macchina conosce la strada a memoria. 

Arriviamo alla shala che qualcuno ha già iniziato, sono alle prime asana, quindi da poco. Lui, Peter, non l’ho mai incontrato prima, non so che faccia abbia. È seduto in un angolo con le gambe incrociate e sta cantando un lungo mantra, sistemiamo i tappetini ed iniziamo come sempre con Surya Namaskara. La sequenza in ashtanga yoga è predefinita, è una delle cose che mi piacciono di questa pratica. 

Durante la lezione mi interrompe un paio di volte e mi chiede di aspettarlo. Mi metto seduto con le gambe incrociate, mi passa davanti un po’ di volte e mi dice di aspettare. La cosa mi lascia perplesso, infastidito. Mentre mi aiuta mi guarda, intensamente. Mi chiama swami-ji. Più avanti nella mia pratica, da lontano mi dirà “correct swami-ji”, oppure "unbelievable", “very good”. Lo trovo simpatico, autentico, e comunque con me il rinforzo positivo funziona. 

Nel corso delle altre mattine realizzerò che mi viene ad aiutare tutte le volte quando sto facendo le stesse asana, è come se mi conoscesse. Le due Trikonasana (da in piedi con una mano si deve prendere l’alluce del piede, l’altra allungarsi verso il cielo, faccio fatica a respirare profondamente mentre le eseguo), Utthita astha padangusthasana (da in piedi occorre alzare la gamba e prendere il piede, un equilibrio complesso, sono il terrore degli altri studenti, cado spesso facendo perdere l’equilibrio a chi mi sta vicino, forse per questo mi mettono sempre in fondo), e quando faccio Marichyasana (mi diceva “swami-ji you are blocked” al punto che poi quando riesco a farle per sbrogliarmi dal groviglio di mani, braccia e gambe mi devono portare in officina). 

Finisco la pratica un po’ confuso sulla sequenza e sugli avvenimenti. Torno a casa velocemente, mi cambio e corro in ufficio. 


Giorno 2. La seconda mattina le mie compagne di workshop vogliono andare prima per prendere i posti più avanti. A trovarci è venuta Saumya, un’amica indiana di Chiara, anche lei partecipa a questo workshop. Sveglia alle 5:45 (Quanto mai mi sono iscritto!).

Di questi tempi alcune notti sono lunghe e trovo il riposo all’alba, quando la sveglia suona. 

Arrivati mi metto davanti, di fianco a Chiara, ma Peter sorridendo mi chiede di andare in fondo, del resto siamo così vicini che se ne tiro giù una, è come il domino, le tirò giù tutte. 

Verrà ad assistermi sempre alle stesse asana, quelle che effettivamente raccontano meglio le mie difficoltà, i miei problemi, forse traumi. Peter ha un modo particolare di assistere, mi accompagna, non si sostituisce, poi mi dirà che per essere “engaged” entrambi occorre incontrarsi a metà. Finita la pratica anche il secondo giorno devo correre a casa, fare una doccia ed andare in ufficio. Durante la giornata realizzo che mi dispiace di non aver potuto dedicare il giusto tempo a questo workshop, non so, non mi sembra di capire, sicuramente il lavoro mi distrae, mi costringe a pensare, vorrei liberare la mia mente non pensare, una delle cose per me più difficili, rincorro i miei pensieri come un cane la palla che rotola. 


Giorno 3. E poi fu venerdì … il giorno del riposo. Il terzo giorno non posso andare a praticare, ho un impegno di lavoro la mattina presto. Tutto sommato c’è un vantaggio, posso svegliarmi un po’ più tardi.


Giorni 4. Sabato ritorno alla pratica. Non ho il lavoro e quindi posso dedicarmi interamente alla pratica. Peter ci racconta cosa sia lo yoga. Inizierò a capire. Del resto sono stato costruito con l’idea che il cervello è al centro, “cogito ergo sum”, quindi le mie emozioni sono filtrate dal mio cervello, lo devo alimentare per capire. 

“Inspirando si apre, espirando si chiude, aprendo e chiudendo si crea uno spazio davanti a noi, dietro di noi, quindi dentro di noi”. Parlerà per circa due ore dopo aver assistito 60 persone per 5 ore. Incredibile l’energia che questo sessantenne è in grado di esercitare. 

Il respiro è tutto, è essenziale, imprescindibile. Il respiro è energia. Quando si inspira occorre lavorare con mula bandhaole quando si espira con uddiyana.

Prima di praticare occorre essere consapevoli del nostro respiro.  

Il nostro corpo porta addosso la nostra vita. Come teniamo le spalle, la postura che abbiamo, il bilanciamento tra destra e sinistra, se soffriamo di cervicale, quanto sono aperte le anche, se le ginocchia ci reggono, tutti questi segni del corpo riflettono i traumi, le emozioni che abbiamo conosciuto nel corso dei nostri giorni. 

Mentre ci parla ogni tanto mi guarda, e dice “you know what I mean”. 

Lavorare per bilanciare, aprire il nostro corpo e farlo mentre si respira è yoga.

Lo yoga non ha niente a che vedere con la dimensione estetica delle asana. Lo yoga è un pratica interiore non esteriore. 

Andando a lavorare sulle nostre difficoltà fisiche si lavora sulle emozioni che le hanno causate, questo processo ci aiuta ad affrontare i nostri problemi.

Dice una cosa che inizio ad intuire “per entrare nelle posizioni occorre saper mettersi in sintonia con la forza di gravità, ogni sforzo in più è frutto del nostro ego”.

Tante persone che hanno praticato ashtanga si sono spaccate, hanno spinto oltre il loro limite, occorre avere pazienza, lavorare con costanza per risolvere i nostri problemi, lasciare andare il nostro ego. 

Non bisogna avere fretta di aggiungere una nuova asana alla nostra pratica. Non si tratta di raggiungere qualcosa ma rilasciare. È molto difficile capire questo per un occidentale, per me. 

Ogni asana ci aiuta a connetterci con noi stessi, il corpo è lo strumento. Inspirando si crea spazio tra adesso e il futuro, espirando tra presente e passato, quello che conta è il presente. 

Saper respirare è importante, farlo in sintonia con i movimenti del nostro corpo è cruciale, lo yoga è questo. 

La nostra società è malata perché le persone non sanno connettersi tra loro, internet, la tecnologia sono strumenti di distrazione di massa. Occorre entrare in se stessi per saper connettersi con gli altri. 

Ogni tanto ci dà dei consigli “Quando devi entrare nelle posizioni che richiedono di prendere l’alluce usa l’indice e l’anulare, entrambi, così facendo crei un circuito”. 


Giorno 5. Respiro e pratico. Domenica è l’ultimo giorno con Peter, ci salutiamo mentre sto uscendo dalla ’ashala, mi guarda mentre sta assistendo dritto negli occhi e mi dice “today you did great with the breath, do like this and everything will be fine”.