di Alessando Camagni
Prima di tutto mi presento. Sono Alessandro Camagni e nella vita sono un giornalista freelance. Ho conosciuto Gianluca immediatamente prima della sua partenza per Varsavia, mentre ero alla ricerca di qualche storia da raccontare.
Io nella capitale
polacca ci ho passato 5 mesi in Erasmus e d’accordo con Gianluca ho deciso di
raccontare qualcosa di questa strana e indecifrabile città, partendo dalla
domanda più inflazionata: “Varsavia è Brutta?”.
Me la ricordo ancora quella piatta e infinita distesa bianca, la
osservavo con grande curiosità e eccitazione dal piccolo oblò dell’airbus, poco
prima dell’atterraggio.
Era l’8 febbraio del 2013, avevo 21 anni e il mondo in mano. Iniziava
una nuova vita per me, quella dello studente Erasmus, sognata per tanti anni
fin dai tempi delle superiori e che ora finalmente era arrivata, portando con
se anche qualche dubbio e agitazione, ma soprattutto voglia di scoprire.
Ricordo che mi ero vestito con un numero impressionante di magliette
sotto felpa e giacca a vento. Nei giorni precedenti avevo letto le temperature
medie su internet ma senza calcolare sole e umidità, con il pronosticabile
risultato di aver iniziato a sudare non appena mi misi spingere le mie due
pesantissime valige, provando quella vaga sensazione di essere come Totò alla
stazione centrale di Milano, in quel film di cui non ricordo il titolo.
Per alcuni, forse molti, Varsavia è brutta. Ed è difficile dargli
torto. Soprattutto in quelle giornate particolarmente grigie, con le nuvole
talmente basse che si fondono coi palazzi più alti, dandoti la claustrofobica
impressione di essere imprigionato in un’enorme, opprimente, scatola color
grigio topo.
E’ così prendere o lasciare. Perché Varsavia non ti regala quasi
niente, se non qualche prospettiva. E anche quei pochi posti veramente belli se
visti nella giornata sbagliata e senza le giuste condizioni atmosferiche,
mettono come minimo tristezza e malinconia. Quei parchi immensi, che d’estate
col sole sono una tempesta di colori, d’inverno, con la nebbia, si trasformano
nella pellicola sbiadita di un vecchio film drammatico in bianco e nero. Ci
sono solo dei piccoli angoli che sono belli sempre, trovarli è difficile,
difficilissimo e di sicuro non ce la può fare un turista o una persona poco
attenta ai dettagli.
Il bello di Varsavia è proprio qui. E’ indecifrabile, per capirla non
basta guardarla, va studiata e conosciuta. Non è una modella, come può essere
Parigi, e nemmeno un’elegante signora, come Roma. Quei palazzi ultramoderni in
centro, fatti di ampie vetrate dove si specchiano gli edifici tipici del
socialismo reale, la rendono più come una ragazza che per la prima volta si
mette i tacchi e cammina un po’ goffa e impacciata, cercando di risultare più
grande e matura di quanto lo sia realmente.
«Ogni abitante deve essere
ucciso, senza fare prigionieri. Che la città sia rasa al suolo e resti come
terribile esempio per l'intera Europa». Henrich Himler.
Varsavia va studiata. Non si può giudicarne il presente senza
conoscerne il passato. La città fino alla seconda guerra mondiale è stata un
gioiello, la chiamavano “La Parigi del Nord” (insieme a Tromso e Riga) o
“dell’Est” (insieme a Budapest). Insomma, forse non era unica, ma di sicuro nei
primi posti in classifica.
Tutto è cambiato col secondo conflitto mondiale. La città è stata
distrutta prima, perché non ha voluto arrendersi, e rasa praticamente al suolo
poi, a seguito della rivolta del ghetto. “Parigi e Praga si sono arrese subito,
non hanno mai avuto grosse rivolte e infatti sono ancora intatte, ma noi no” mi
disse una volta Marcin, il proprietario dell’appartamento dove vivevo, con un
misto di orgoglio e tristezza.
E forse è partendo da qui che si può iniziare veramente ad apprezzarla.
Una città che non si è neanche voluta arrendere di fronte all’evidenza e che ha
continuato a combattere, che ha dato tutta se stessa, che si è immolata fino a
rimanere letteralmente un cumulo di macerie pur di non rinunciare a combattere
il male. Un’insensata e irrazionale, tanto quanto ponderata, voglia di non
piegarsi, ma piuttosto spezzarsi.
Solo così quella sterminata distesa di palazzi grigi, tutti uguali,
assume un senso.
Anni di dominio sovietico poi, con lo stupro di un mastodontico palazzo
a celebrare la grandezza dell’occupante nel cuore del centro, l’hanno resa una
città ferita, che ancora una volta ha dovuto guardare avanti.
Con queste premesse ho sempre ritenuto ingiusto, oltre che insensibile,
considerarla una città brutta e mi sono arrabbiato molto con chi l’ha fatto.
“Con che coraggio la ferite ancora?” mi domandavo, “Ma non vedete cosa ha
passato?!?”.
E’ infantile, stupido e forse pure sbagliato, ma è più forte di me,
davanti a una città che, senza saperlo e men che meno volerlo, mi ha dato
tanto.
Ci sono tornato questa estate, dopo 3 anni, senza sapere bene cosa
aspettarmi ma con tantissima voglia di rivederla.
Ogni angolo era un ricordo, un tuffo in una nostalgica malinconia. E’
stato bello, ma anche strano. Ero lì, in un posto che non aveva più niente di
nuovo da farmi scoprire e che eppure non sentivo più casa mia. I primi minuti
sono stati terribili, il suono di quella lingua così complicata, e che pur non
comprendendola del tutto era entrato nel mio orecchio come familiare, mi
sembrava così distante, sconosciuto praticamente. Divenne per un giorno il
fastidiosissimo rumore che mi ricordava che quella non era più casa mia.
Poi l’orecchio tornò ad abituarsi e anzi, rimasi stupito di come un
angolo del mio cervello avesse conservato buona parte delle lezioni di polacco
seguite ormai 3 anni prima.
Ho anche capito davvero cosa intendeva chi mi diceva che la città era
proprio brutta, visto che non avevo più intorno a me quella magia che
l’esperienza Erasmus regala, e che spesso fungeva da filtro color arcobaleno
tra me e l’architettura del socialismo reale.
Cos’è Varsavia, dunque? Una moderna capitale europea, internazionale e
con ottimi servizi, primo su tutti il trasporto pubblico. Una città che vive un
forte dilemma su quanto debba spingersi la globalizzazione ma che allo stesso
tempo tenta di guardare al futuro sempre più multietnico (e non parlo solo di
persone, ma soprattutto di servizi). Divisa a metà (come quasi tutto il mondo,
ormai) tra populismo e progressismo, tra UE e nazionalismo.
Insomma, tolti i ristoranti vietnamiti (la terza comunità più grande
d’Europa dopo Francia e Germania) potrebbe essere una qualsiasi capitale
mittle-europea/post-sovietica.
La mia Varsavia però è stata altro. Molto, molto di più. Amicizie,
studio, risate, sguardi e soprattutto “diventare grandi”. Credo nelle persone
più che nei luoghi fisici e quindi pace per il grigio, le nuvole e il freddo,
vengo dalla Brianza, in fondo ci sono abituato… Varsavia è brutta? La risposta
giusta è “Sì”, ma sono convinto che, in fondo, è la domanda ad essere
sbagliata...