mercoledì 11 dicembre 2019

Tra le cose che mi ero riproposto di fare a Lampedusa c'è quella di andare a visitare il centro d'accoglienza. Un caro collega che lavora presso il ministero degli interni mi fissa un appuntamento.
Con un motorino elettrico simil vespa, il leprottino, mi dirigo al centro in una calda mattina di giugno. È divertente percorrere le strade sull'isola, sono semideserte. Lasciato l'abitato di Lampedusa occorre percorrere una stradina chiusa in una piccola valletta disabitata, dopo circa un chilometro si raggiunge la fine della strada, perentori cartelli impongono l'ALT. Attendo che qualcuno venga a farmi entrare.
Giuseppe è l'ufficiale di polizia che mi accoglie, ci sediamo all'ombra delle pensiline dove i migranti vengono registrati. Giuseppe è un coordinatore del centro, è di Roma, dove ha una famiglia e una vita. Ogni due mesi deve trascorrere due settimane a Lampedusa, messa così sembra quasi una vacanza, in realtà in questo centro gli ufficiali lavorano 12 ore al giorno, e se non stanno lavorando riposano.
Le procedure che definiscono come accogliere i migranti non danno ragione dell'aria che si respira, sembrano raccontare cose viste in campi di concentramento. Alcuni mesi prima d'andare a Lampedusa ero stato ad Auschwitz-Birkenau, il parallelo tra le procedure per gestire le persone nei due luoghi è troppo facile, scontato, per questo superficiale, sono generalizzazioni che servono a portare avanti campagne demagogiche. Nel centro ci sono ragazzi di colore che scherzano, giocano, il clima è sereno.
Ben diverse sono le cose nei centri d'accoglienza dall'altra parte del Mediterraneo. Giuseppe  sostiene che occorrerebbe  chiamarli col proprio nome,  “di tortura”, chiamarli d'accoglienza è una presa in giro.
Mentre Giuseppe sta raccontando vengo distratto da un singhiozzo, passa una giovane donna di colore accompagnata da un agente che la sorregge per le spalle. La notte precedente un piccolo peschereccio proveniente dalla Libia è arrivato a Lampedusa. "Non c'è donna che in Libia non sia stata violentata, stuprata più volte. Insieme al dolore di aver lasciato casa, di aver perso tutto quello che di caro una persona possa avere, c'è anche quello di aver perso il rispetto del proprio corpo, di sé stessi". Quando le persone arrivano al centro, durante la registrazione spesso accade che raccontino quello che hanno subito, è un modo per iniziare a cercare di superare questo trauma.
Giuseppe mi chiede se mi ricordo del caso Hirsi, perché lui dice di aver provato vergogna d'essere italiano. Il 6 maggio 2009, a 35 miglia a sud di Lampedusa, in acque internazionali, le autorità italiane intercettarono una nave con a bordo circa 200 persone di nazionalità somala ed eritrea, tra cui bambini e donne in stato di gravidanza. I migranti furono trasbordati su imbarcazioni italiane e riaccompagnati a Tripoli senza essere identificati, né ascoltati,  né informati sulla loro destinazione. Giuseppe mi guarda per accertarsi che abbia capito il problema "I migranti non hanno avuto alcuna possibilità di presentare richiesta di protezione internazionale in Italia", un loro diritto “riportarli in Libia significava condannarli alla tortura, e loro lo sapevano bene”.
Di queste 200 persone 24, 11 somali e 13 eritrei, sono state rintracciate e assistite legalmente. Questo caso fu chiamato Hirsi, dal nome di uno degli assistiti per cui fu data la sentenza della corte Europea dei diritti umani che condannò l'Italia.
Giuseppe s'accende una sigaretta e mi offre un caffè. Mario, un suo collega, sta passando con la moka e le tazzine, e ci versa un buon caffè segno di un'Italia che sa resistere alle evoluzioni in chiave Nespresso, e associa un piacere, il caffè, ad un rito, la moka. Mario ci tiene a dirmi che la moka con la quale ha preparato il caffè "l'ha tirata grande" lui, e celebra 20 anni di servizio. Mario il caffè con quella moka l'ha preparato a tutti quelli che sono passati in questi anni dal centro, perfino al Papa. Effettivamente il caffè è squisito. Gli s'illuminano gli occhi quando dico che mi piace molto la miscela, si sente una punta di robusta, non come i soliti caffè che ormai sono a base di sola arabica, Mario mi guarda e recita " 'a recetta ch'a Cicirinella compagno di cella ci ha dato mammà."
"Le condizioni di detenzione in Libia per i respinti del caso Hirsi furono drammatiche", riattacca Giuseppe "la maggior parte fu reclusa per molti mesi in celle dove hanno subito violenze e abusi di ogni genere".
La Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato all'unanimità l'Italia per i respingimenti verso la Libia. Strasburgo ha così posto un freno ai respingimenti indiscriminati in mare, e ha stabilito che l'Italia aveva violato il divieto alle espulsioni collettive, oltre al diritto effettivo per le vittime di fare ricorso presso i tribunali italiani.
Giuseppe mi chiede: "Sai quale fu il commento alla sentenza dell'allora ministro degli interni?" Roberto Maroni, il vero artefice della politica dei respingimenti. Prima di dirmelo tira una lunga boccata alla sigaretta "È una sentenza politica di una corte politicizzata. Rifarei esattamente quello che ho fatto: impedire ai barconi di clandestini di partire dalla Libia, salvare molte vite umane e garantire maggiore sicurezza ai cittadini". Chiedo a Giuseppe cosa ne pensa. Lui mi risponde lapidario "occorrerebbe che su quei barconi ci fosse stata sua madre".
Con la sentenza del caso Hirsi diventa chiaro che la politica migratoria del governo Berlusconi era, non solo umanitariamente sbagliata, ma anche politicamente inefficace. A picconare i pacchetti sicurezza della Bossi-Fini furono tribunali ordinari, Consiglio di Stato, Corte di Cassazione, Consulta e Corte di giustizia dell'Unione Europea. Sotto le loro sentenze caddero: l'aggravante di clandestinità, il divieto di matrimonio con irregolari, il reato di clandestinità, ed infine i respingimenti. Giuseppe conclude "Quello che per noi operatori del settore risulta evidente è che né i partiti di destra né di sinistra hanno avuto la capacità di affrontare il tema dell'immigrazione in modo serio ed organico. Allora noi guardavamo all'Europa come ad una speranza".