venerdì 23 giugno 2006


Noi che ci occupiamo di volontariato, alcune volte, siamo più cattivi contro noi stessi di quanto meriteremmo. Continuiamo a ricordarci di quanto, noi, comaschi, siamo: egoisti, razzisti, rozzi, borghesi, ecc... e lo misuriamo spesso e volentieri nel numero di persone che partecipano agli incontri o alle attività che le associazioni di cui facciamo parte organizzano. E se a sbagliare fossimo noi?
Nel modo con il quale proponiamo le cose, nel livello della proposta, nei tempi, nel linguaggio ecc.. Non tutti amano stare seduti ad ascoltare qualcuno che parla, non tutti hanno lo stesso livello di formazione culturale, tanti la mattina si svegliano presto per fare un lavoro stancante, non tutti hanno lo stesso senso critico. Tanti sono generosi, tanti di fronte ad una persona che soffre non girano lo sguardo, tanti vogliono una società giusta. Sono sinceramente allergico a forme che prevedono dibattiti o quant'altro, proprio perché mi sembra che possono solo alimentare i bisogni di chi vuole e sa parlare. Quante persone si escludono nel nome di una finta offerta di partecipazione! Credo che una parte della così detta "società civile" (tra l'altro un bruttissimo termine, quasi ad indicare che chi non ne fa parte è incivile: giudizio generalizzante e poco veritiero), soddisfi più un bisogno d’identità che la volontà di essere un reale strumento di trasformazione della società. Pur riconoscendo tutta una serie d’importantissime attività, per esempio: campagne di boicottaggio, attività di sensibilizzazione, cooperazione internazionale, e quant’altro, mi sembra che sia in atto, almeno per qualche gruppo, un processo pericoloso che alimenta solo quella dicotomica appartenenza: noi/loro, società civile/società incivile, no-global/global ecc ... testimoniato dalla costituzione di numerosi soggetti sociali o politici di questi ultimi tempi. Questo processo d’appartenenza e di esclusione mina il dialogo e in alcuni casi il rispetto unici e veri strumenti per progettare in modo partecipato il futuro, anche con chi, a torto o a ragione, si pensa rappresenti il nemico e spesso, invece, non si è solo stati capaci di persuadere e di informare.
Riecheggiano nella mia mente le parole di don Ciotti: ”O il mondo dell’associazionismo riesce con lucidità a misurarsi con le trasformazioni e a qualificarsi come soggetto capace di proposta politica, motore di progettualità, senza timidezze e soggezioni, oppure si candida ad essere quella rete, a prevalente carattere assistenziale, che sarà chiamata a supplire la crisi dello Stato sociale; a fornire servizi a basso costo e a basso contenuto di cittadinanza.”
Usciamo dalle malinconiche nebbie della Padania e costruiamo un “rifugio” per noi e per tutti quelli per i quali in questi anni abbiamo incontrato durante le attività delle associazioni di cui facciamo parte, ma non solo. Diamo vigore ad un progetto politico che sappia includere realtà diverse a partire dalla convinzione che la nostra è una società complessa. Non dobbiamo commettere l’errore di ridurre a dei paradigmi, per quanto consistenti ed evocativi, la soluzione dei problemi legati al vivere insieme (più o meno stato, proporzionale o maggioritario, democrazia diretta o parlamentare, federalismo o centralismo ecc...), l’attenzione alle regole e alle procedure per quanto importante in democrazia non è tutto, se a mediarla non c’è l’uomo capace è solo burocrazia. Bisogna riconoscere che nessuno possiede ricette che possono essere considerate come la panacea di tutti i problemi e soprattutto che ogni soluzione deve fare i conti con il territorio nel quale si intende realizzarla. Territorio fatto di fiumi, laghi monti ma anche di persone e quindi tradizioni, di sistemi di pensiero e di corpi sociali. Occorre valorizzare e riconoscere la particolarità di ogni territorio in una fitta rete di relazioni culturali, sociali, commerciali e politiche. La centralità e la specificità della nostra area geografica passa anche attraverso il riconoscerne e pretendere: l’autonomia, intesa come principio di responsabilità e di autogoverno; progettare la sussidiarietà, non si faccia a livello superiore ciò che può essere fatto ad un livello inferiore; rispetto del "policentrismo" e delle specificità culturali che contraddistinguono l'area; apertura internazionale, riconoscendo e valorizzando le reciproche dipendenze non solo economiche; il ruolo della piccola e media impresa, della cosiddetta economia diffusa. Occorre definire una agenda politica che abbia i seguenti obiettivi: creare le condizioni affinché la brianza, il lago, le valli e la bassa si riconosca e venga riconosciuta come un'area forte; proporre soluzioni concrete ai problemi dell'area; diventare l'interlocutore dell'Unione Europea per le politiche regionali, in collegamento con le altre aree a partire da quelle europee e del mediterraneo ma non solo; fornire strumenti di analisi, comprensione e informazione su temi politici, economici e sociali, con particolare attenzione allo scenario internazionale e agli effetti sull'ambiente a partire dalle agenzie di formazione come le scuole; valorizzare le risorse intellettuali presenti nell'area e riscoprendo la propria identità e le proprie radici.