Noi che ci occupiamo di volontariato, alcune
volte, siamo più cattivi contro noi stessi di quanto meriteremmo. Continuiamo a
ricordarci di quanto, noi, comaschi, siamo: egoisti, razzisti, rozzi, borghesi,
ecc... e lo misuriamo spesso e volentieri nel numero di persone che partecipano
agli incontri o alle attività che le associazioni di cui facciamo parte
organizzano. E se a sbagliare fossimo noi?
Nel modo con il quale proponiamo le cose, nel livello della proposta, nei tempi, nel linguaggio ecc.. Non tutti amano stare seduti ad ascoltare qualcuno che parla, non tutti hanno lo stesso livello di formazione culturale, tanti la mattina si svegliano presto per fare un lavoro stancante, non tutti hanno lo stesso senso critico. Tanti sono generosi, tanti di fronte ad una persona che soffre non girano lo sguardo, tanti vogliono una società giusta. Sono sinceramente allergico a forme che prevedono dibattiti o quant'altro, proprio perché mi sembra che possono solo alimentare i bisogni di chi vuole e sa parlare. Quante persone si escludono nel nome di una finta offerta di partecipazione! Credo che una parte della così detta "società civile" (tra l'altro un bruttissimo termine, quasi ad indicare che chi non ne fa parte è incivile: giudizio generalizzante e poco veritiero), soddisfi più un bisogno d’identità che la volontà di essere un reale strumento di trasformazione della società. Pur riconoscendo tutta una serie d’importantissime attività, per esempio: campagne di boicottaggio, attività di sensibilizzazione, cooperazione internazionale, e quant’altro, mi sembra che sia in atto, almeno per qualche gruppo, un processo pericoloso che alimenta solo quella dicotomica appartenenza: noi/loro, società civile/società incivile, no-global/global ecc ... testimoniato dalla costituzione di numerosi soggetti sociali o politici di questi ultimi tempi. Questo processo d’appartenenza e di esclusione mina il dialogo e in alcuni casi il rispetto unici e veri strumenti per progettare in modo partecipato il futuro, anche con chi, a torto o a ragione, si pensa rappresenti il nemico e spesso, invece, non si è solo stati capaci di persuadere e di informare.
Nel modo con il quale proponiamo le cose, nel livello della proposta, nei tempi, nel linguaggio ecc.. Non tutti amano stare seduti ad ascoltare qualcuno che parla, non tutti hanno lo stesso livello di formazione culturale, tanti la mattina si svegliano presto per fare un lavoro stancante, non tutti hanno lo stesso senso critico. Tanti sono generosi, tanti di fronte ad una persona che soffre non girano lo sguardo, tanti vogliono una società giusta. Sono sinceramente allergico a forme che prevedono dibattiti o quant'altro, proprio perché mi sembra che possono solo alimentare i bisogni di chi vuole e sa parlare. Quante persone si escludono nel nome di una finta offerta di partecipazione! Credo che una parte della così detta "società civile" (tra l'altro un bruttissimo termine, quasi ad indicare che chi non ne fa parte è incivile: giudizio generalizzante e poco veritiero), soddisfi più un bisogno d’identità che la volontà di essere un reale strumento di trasformazione della società. Pur riconoscendo tutta una serie d’importantissime attività, per esempio: campagne di boicottaggio, attività di sensibilizzazione, cooperazione internazionale, e quant’altro, mi sembra che sia in atto, almeno per qualche gruppo, un processo pericoloso che alimenta solo quella dicotomica appartenenza: noi/loro, società civile/società incivile, no-global/global ecc ... testimoniato dalla costituzione di numerosi soggetti sociali o politici di questi ultimi tempi. Questo processo d’appartenenza e di esclusione mina il dialogo e in alcuni casi il rispetto unici e veri strumenti per progettare in modo partecipato il futuro, anche con chi, a torto o a ragione, si pensa rappresenti il nemico e spesso, invece, non si è solo stati capaci di persuadere e di informare.
Riecheggiano nella mia mente le parole di don
Ciotti: ”O il mondo dell’associazionismo riesce con lucidità a misurarsi con le
trasformazioni e a qualificarsi come soggetto capace di proposta politica,
motore di progettualità, senza timidezze e soggezioni, oppure si candida ad
essere quella rete, a prevalente carattere assistenziale, che sarà chiamata a
supplire la crisi dello Stato sociale; a fornire servizi a basso costo e a
basso contenuto di cittadinanza.”
Usciamo dalle
malinconiche nebbie della Padania e costruiamo un “rifugio” per noi e per tutti
quelli per i quali in questi anni abbiamo incontrato durante le attività delle
associazioni di cui facciamo parte, ma non solo. Diamo vigore ad un progetto
politico che sappia includere realtà diverse a partire dalla convinzione che la
nostra è una società complessa. Non dobbiamo commettere l’errore di ridurre a
dei paradigmi, per quanto consistenti ed evocativi, la soluzione dei problemi
legati al vivere insieme (più o meno stato, proporzionale o maggioritario,
democrazia diretta o parlamentare, federalismo o centralismo ecc...),
l’attenzione alle regole e alle procedure per quanto importante in democrazia
non è tutto, se a mediarla non c’è l’uomo capace è solo burocrazia. Bisogna
riconoscere che nessuno possiede ricette che possono essere considerate come la
panacea di tutti i problemi e soprattutto che ogni soluzione deve fare i conti
con il territorio nel quale si intende realizzarla. Territorio fatto di fiumi,
laghi monti ma anche di persone e quindi tradizioni, di sistemi di pensiero e
di corpi sociali. Occorre valorizzare e riconoscere la particolarità di ogni
territorio in una fitta rete di relazioni culturali, sociali, commerciali e
politiche. La centralità e la specificità della nostra area geografica passa
anche attraverso il riconoscerne e pretendere: l’autonomia, intesa come
principio di responsabilità e di autogoverno; progettare la sussidiarietà, non
si faccia a livello superiore ciò che può essere fatto ad un livello inferiore;
rispetto del "policentrismo" e delle specificità culturali che
contraddistinguono l'area; apertura internazionale, riconoscendo e valorizzando
le reciproche dipendenze non solo economiche; il ruolo della piccola e media
impresa, della cosiddetta economia diffusa. Occorre definire una agenda
politica che abbia i seguenti obiettivi: creare le condizioni affinché la
brianza, il lago, le valli e la bassa si riconosca e venga riconosciuta come
un'area forte; proporre soluzioni concrete ai problemi dell'area; diventare
l'interlocutore dell'Unione Europea per le politiche regionali, in collegamento
con le altre aree a partire da quelle europee e del mediterraneo ma non solo;
fornire strumenti di analisi, comprensione e informazione su temi politici,
economici e sociali, con particolare attenzione allo scenario internazionale e
agli effetti sull'ambiente a partire dalle agenzie di formazione come le
scuole; valorizzare le risorse intellettuali presenti nell'area e riscoprendo
la propria identità e le proprie radici.