martedì 22 luglio 2014

In questo viaggio ho cercato di guardare l'India con gli occhi dei miei bambini, per capire cosa potesse passargli per la testa nel vedere questo paese, nella speranza di aiutarli a digerirlo, ma alla fine ho capito che l'India non passava dagli occhi, o dalla testa, ma dalle mani.
Abbiamo visto palazzi sontuosi, assaggiato gustosi piatti vegetariani,  goduto di una natura rigogliosa con animali insoliti. Ma quello che più ci ha colpito è stato l'uomo. O almeno questo è stato il tema più frequente delle domande fatte dai mostri. La sconfinata e disarmante capacità d'adattarsi a situazioni precarie, tra fango e sporcizia e fatica, ma nonostante tutto sorridere in quella attesa che è preghiera.
Ci sono tre scene che a mio modo di vedere sono emblematiche, raccontano l'India che mi porto a casa.

Scena 1. Stiamo attraversando a piedi un piccolo villaggio, Orchha. Stiamo andando a trovare un posto dove pranzare. Chiara ha per mano Giacomo. Attraversiamo un gruppo di baracche fatiscenti. Da una di queste baracche esce una bambina di forse 3 anni praticamente nuda, e si sporge sopra una rongia per fare i suoi bisogni. Osserviamo la scena in silenzio e noto che Giacomo stringe la MANO di Chiara e sgrana gli occhi. Non ci chiederà niente, a pensarci bene è rimasto in silenzio per molto tempo. Io anche.
Scena 2. Stiamo lasciando Varanasi.  Stiamo percorrendo una super strada, due corsie per marcia, una carreggiata è completamente chiusa per permettere a dei pellegrini vestiti d'arancione di raggiungere il Gange a piedi nudi. L'arancione ricorda il colore delle fiamme che bruciando rischiarano la notte e consumano la materia. Tantissimi pellegrini ogni anno durante questo mese camminano, chi 300 km, chi 200 km, chi 500 km con un bastone di bambu sulle spalle e due giare, una davanti e una dietro, per raccogliere l'acqua santa del Gange. Che poi con le MANI verseranno nei templi vicino a casa per purificarsi.
Scena 3. Per anni ho pensato che per cambiare questo mondo, perché di cose da cambiare ce ne sono tante, occorreva sporcarsi le MANI. Credo che sia ancora vero. Ma oggi più che mai capisco che Gandhi non sarebbe stato Gandhi senza un'adesione monastica ad una pratica spirituale come è quella del giainismo. Una spiritualità forte che passa dal corpo, dal fare, che siano le asana o il camminare per chilometri a piedi nudi. Credo che senza questa premessa si corra il rischio di sporcare la politica con la testa.
A me piaciono quelle MANI che si uniscono davanti al petto dicendo "Namaste! ". Mi sembra davvero un modo di vedere il mondo da una prospettiva diversa. Da questo viaggio intuisco che con la testa non c'è niente da cambiare, ma c'è semplicemente da capire che si è parte di Tutto e lasciarsi andare a partire dalle MANI.

serie: ReportageIndia