sabato 11 luglio 2015

A Yangon diluvia, e quindi, come minacciato, scrivo.
Non è che piove sempre, ma quando piove vengono giù "gatti e cani", come direbbero gli inglesi. Oggi siamo riusciti a non lavarci, sarebbero bastati 5 minuti in più e saremmo stati completamente ammollo. Ci siamo infilati dentro la Sula paya, tempio buddista, ed ha iniziato a diluviare.

Yangon dista meno di un paio di ore di volo da Bangkok. Bangkok è una città ultra moderna, asiaticamente moderna. Bangkok sembra essere la capitale finanziaria di questo sub-continente. Un po' come la centralissima Francoforte in Europa, anche se molto più vivace. Da Francoforte, qualsiasi sia la capitale europea che s'intende raggiungere, in due ore di volo si arriva in una città comparabile, stesse infrastrutture, standard, probabilmente stessa moneta. Volare da Bangkok a Yangon significa cambiare percorso alla storia. Non è una questione di tempo, tipo andare indietro di 50 anni, è anche una questione di percorso, da dove parti, dove sei, dove vuoi andare.
In Myanmar si respira un altro mondo, un mondo diverso, i suoi abitanti dicono di essere l'ultima società buddista. Poche persone hanno in mano i cellulari, quelli che fumano lo fanno con sigarette fatte di erbe, molti masticano una cosa arancione che si preparano mettendo delle spezie in una foglia (betel), e gli uomini vestono ancora con l'abito tipico, una stoffa avvolta intorno alla vita come una lunga gonna (longiy, che ovviamente mi comprerò per alimentare i falsi-positivi all'Alfama, del resto è ormai tradizione che dove vado mi debba portare a casa un abito).
I birmani e gli altri 100 gruppi etnici che vivono in Myanmar hanno pagato a caro prezzo la loro unicità con la loro storia. Anche se si annusa che vorrebbero chiudere la partita con il passato, si percepisce che tutto è ancora in un equilibrio precario, vedremo cosa accadrà alle prossime, forse prime, elezioni democratiche ad ottobre. Per ora la situazione me l'hanno spiegata in aereoporto appena atterrati. Siamo in fila per fare il controllo dei passaporti. Chiara passa per prima, poi i bambini ed infine io. Ho tutta la famiglia ormai in Myanmar e decido di fargli una foto. La polizia mi vede, e mi chiede di farmi da parte. Vogliono controllare il cellulare, mi chiedono da dove vengo, dove vado, perché sono in Myanmar, quanto ci rimango. Poco gentili e molto chiari. Alla fine mi spiegano che le foto alla mia famiglia le posso fare fuori dall'aeroporto.
Di diverso tono sono gli incontri con i locali.
Siamo in centro a Yangon, e dopo aver percorso le vie dei meravigliosi mercati, ci dirigiamo verso la stazione dei treni, esperienza che vale la pena fare (intendo prendere un treno), dopo qualche isolato abbiamo bisogno d'aiuto e quindi chiedo in inglese della stazione ad una signora che vende stoffe. Lei non capisce e chiama un amico, che capisce meno di lei, che comunque intuisce che si tratta di una domanda in inglese, e quindi chiama un altro suo amico. Nel frattempo altre persone si sono fatte intorno a noi 5. Siamo praticamente circondati. Anche Viola, la più British della famiglia, prova a farsi capire. Ormai la situazione sembra irrisolvibile, finché decido di tirare fuori l'asso dalla manica, piego le gambe come fossi seduto su un treno e grido "ciuf-ciuf" ondeggiando. Il pubblico non pagante scoppia in una risata, ed in coro gridano qualcosa come "aiouuuu chein tacion". L'arcano è risolto e la stazione è praticamente dietro l'angolo.
È chiaro, 'sto Myanmar è difficile, è ancora poco di organizzato per i turisti, le persone sono semplicemente meravigliose. 'Sto Myanmar inizia a piacermi.