"Tra quelli che partono e quelli che restano non c'è differenza, entrambi aspettano".
Così il capitan Caiazzo mi aveva salutato una delle ultime sere che ci siamo incontrati da Euriko prima che lui partisse per Tangeri, in attesa forse di trovar modo di restare. Avevo provato a chiedergli ragione di questa frase, e come al solito aveva allungato il braccio fino alla brocca di vino, riempito un altro bicchiere, sorriso, e il discorso era finito così, con in mano un bicchiere di vino rosso per brindare.
Il 2015 è stato un anno di cambiamenti, molte cose intorno a me sono cambiate, e quindi anche dentro di me. Del resto l'Armando me l'aveva detto.
Molte persone non sono più dove erano, il capitano è a Tangeri, al posto della tipografia di João d'Intendente adesso c'è un caffè cool, Nussardim non è più in piazza São Domingos, i suoi amici mi hanno detto che è partito.
In fondo tra chi resta e chi parte non c'è differenza, si tratta comunque di dare un senso alla nostalgia. Ci si muove o si resta seguendo qualcosa che ci manca. Ognuno di noi s'aggrappa ad idee o persone che purtroppo non potranno mai colmare il vuoto: coloro a cui siamo aggrappati, poveri, saranno costretti ad essere oggetto della nostra disperazione.
È così che andiamo, o stiamo, lo facciamo inseguendo il vuoto.
Sono in macchina, è notte. Da una parte il lago, il mio lago, dall'altra le montagne, le mie montagne. Sono stanco e guido verso casa godendomi le luci dell'altra riva, quelle che si confondono nella nebbiolina, un'atmosfera suggestiva che mi espone al vuoto.
Nel 2015 molte persone si sono disaggrappate nella speranza di dare un nuovo senso al vuoto.
Sono partite, e chi parte aspetta un po' di più, sposta più in là l'attesa. Chi parte s'aggrappa al vuoto camminando, riempiendo l'oggetto della propria disperazione muovendosi.
Ho sempre ammirato chi conduce una vita nomade per scelta, perché in fondo mi sembra che abbia capito più di altri che l'unico modo per stare bene è fuggire. Chi resta s'aggrappa più forte e quindi è destinato a soffrire di più.
Non che chi scappi non soffra, alcune notti è doloroso stare lontano da quelli a cui ci si era aggrappati, ma stando lontani s'impara a conoscerla la nostalgia, a prendere le misure per sopportarla. È un dolore circoscritto anche se intenso, e soprattutto aiuta a far dimenticare il vuoto. È un po' come se si avesse un persistente mal di pancia e per ridurre il dolore ci si tirasse una martellata sul mignolo.
Bisogna saperla coltivare una sana nostalgia per i posti lasciati, per le persone salutate. Presa a piccole dosi la nostalgia allevia il dolore dell'attesa.
Il 2015 per me è stato anche questo, la scoperta di un modo nuovo per coltivare l'attesa, che forse è il senso della vita, almeno della mia.
Non so se il capitano intendesse questo da Euriko, ma io vorrei brindare a saperla coltivare questa attesa, così ti auguro di saper aspettare, buon 2016.
Così il capitan Caiazzo mi aveva salutato una delle ultime sere che ci siamo incontrati da Euriko prima che lui partisse per Tangeri, in attesa forse di trovar modo di restare. Avevo provato a chiedergli ragione di questa frase, e come al solito aveva allungato il braccio fino alla brocca di vino, riempito un altro bicchiere, sorriso, e il discorso era finito così, con in mano un bicchiere di vino rosso per brindare.
Il 2015 è stato un anno di cambiamenti, molte cose intorno a me sono cambiate, e quindi anche dentro di me. Del resto l'Armando me l'aveva detto.
Molte persone non sono più dove erano, il capitano è a Tangeri, al posto della tipografia di João d'Intendente adesso c'è un caffè cool, Nussardim non è più in piazza São Domingos, i suoi amici mi hanno detto che è partito.
In fondo tra chi resta e chi parte non c'è differenza, si tratta comunque di dare un senso alla nostalgia. Ci si muove o si resta seguendo qualcosa che ci manca. Ognuno di noi s'aggrappa ad idee o persone che purtroppo non potranno mai colmare il vuoto: coloro a cui siamo aggrappati, poveri, saranno costretti ad essere oggetto della nostra disperazione.
È così che andiamo, o stiamo, lo facciamo inseguendo il vuoto.
Sono in macchina, è notte. Da una parte il lago, il mio lago, dall'altra le montagne, le mie montagne. Sono stanco e guido verso casa godendomi le luci dell'altra riva, quelle che si confondono nella nebbiolina, un'atmosfera suggestiva che mi espone al vuoto.
Nel 2015 molte persone si sono disaggrappate nella speranza di dare un nuovo senso al vuoto.
Sono partite, e chi parte aspetta un po' di più, sposta più in là l'attesa. Chi parte s'aggrappa al vuoto camminando, riempiendo l'oggetto della propria disperazione muovendosi.
Ho sempre ammirato chi conduce una vita nomade per scelta, perché in fondo mi sembra che abbia capito più di altri che l'unico modo per stare bene è fuggire. Chi resta s'aggrappa più forte e quindi è destinato a soffrire di più.
Non che chi scappi non soffra, alcune notti è doloroso stare lontano da quelli a cui ci si era aggrappati, ma stando lontani s'impara a conoscerla la nostalgia, a prendere le misure per sopportarla. È un dolore circoscritto anche se intenso, e soprattutto aiuta a far dimenticare il vuoto. È un po' come se si avesse un persistente mal di pancia e per ridurre il dolore ci si tirasse una martellata sul mignolo.
Bisogna saperla coltivare una sana nostalgia per i posti lasciati, per le persone salutate. Presa a piccole dosi la nostalgia allevia il dolore dell'attesa.
Il 2015 per me è stato anche questo, la scoperta di un modo nuovo per coltivare l'attesa, che forse è il senso della vita, almeno della mia.
Non so se il capitano intendesse questo da Euriko, ma io vorrei brindare a saperla coltivare questa attesa, così ti auguro di saper aspettare, buon 2016.