È sera, sono le 19:00 e sono a Varsavia. È una sera di un giorno qualsiasi, di una settimana qualsiasi, di un aprile qualsiasi. Sto attraversando a piedi il ponte sulla Vistola per raggiungere l'unico posto ad un prezzo decente che ho trovato per dormire. Il ponte è vuoto, non ci sono persone, macchine, pulman. Il fiume scorre lento, il vento che mi soffia nelle orecchie è freddo. Sotto il ponte, su un isolotto in mezzo al fiume, tre ragazzi hanno acceso un fuoco, sembra che se la stiano raccontando.
Davanti a me edifici che ricordano un passato rigoroso, concreto, austero. Dietro di me la città vecchia, interamente ricostruita dopo la seconda guerra. Comunque con le sue piazze, i palazzi colorati, e la musica per le strade la rendono bella, mitteleuropeamente affascinante.
Raggiungo la pensione che ho prenotato, e suono. Dopo un lungo momento d'attesa mi viene ad aprire un donnone che indossa una lunga gonna, calze di lana e maglione pesante. Mi saluta con un ghigno. La faccia è decisamente polacca, rotonda, con la fronte che si allunga sopra le ciglia, sguardo un po corvino, bella nel suo genere. Lei parla solo polacco e immagino mi stia dando il benvenuto. Probabilmente il migliore che conosce, ma a causa d'una lingua difficile risulta un benvenuto ostile, meccanico, quasi freddo. Ringrazio in inglese e la tizia s'incupisce. Mi fa avere un modulo da compilare con le mie generalità. Compilo il modulo e mi dice qualcosa che non capisco, me lo ripete accigliandosi, poi scrive un numero su un foglio. Capisco che vuole che saldi la stanza. Azzardo un "telematiko" nella speranza possa chiarire come intendo pagare. La situazione si complica, l'espressione facciale del donnone è inequivocabile, così gli faccio vedere la carta di credito, scuote la testa a mi fa vedere una banconota. Pago e mi da le chiavi della stanza.
Salgo in camera che praticamente risulta essere un appartamento con tanto di cucina. Il legno scricchiola sotto i miei passi, ma il rumore di questo parquet è inusuale, non fa "crick, crack", sembra un suono più polacco "crikawsky, crikowska".
Mi sciaquo, cambio e vado a fare un giro per procurarmi una cena.
Sono vicino al centro, ma comunque in una zona periferica. Alle 20:30 di un giorno qualsiasi è difficile trovare qualcosa di aperto. Ho voglia di stare leggero. Entro nell'unico locale che trovo. Il locale è vuoto, fatto questo culinariamente preoccupante, c'è una canzone in polacco di sottofondo che lo rende dannatamente triste. Dopo qualche minuto compare un donnone vestito con una lunga gonna, pesanti calze e maglione. Praticamente una sorta di sorella di quella che gestisce la pensione.
Non parla una parola d'inglese, non parlo una parola di polacco. Mi piazza in mano una lista. Per mia fortuna difianco ai piatti ci sono le foto. Tra stufati, goulasch, carni adagiate sopra letti di crauti, ci sono dei ravioli bolliti, li ordino e arrivano con una salsa e un generoso calice di birra. La salsa risulterà essere molto buona ma molto pesante. Di quelle che alle tre di notte ti svegliano per chiederti se preferisci farla ritornare definitivamente su, o sei proprio convinto di volerla mandare incoscientemente giù. Dopo un lungo tira e molla opto per tirarla su, almeno posso tornare a dormire.
Mentre sono preso da queste considerazioni gastro intestinali penso che è la prima volta nella mia vita in cui mi trovo a dover pensare di poter andare a vivere in un posto dove la lingua è un problema. Non si capisce niente, e questo va al di la delle mie note limitate capacità linguistiche. Così cerco di correre ai ripari. Anni di viaggi mi hanno insegnato che ci sono due parole che scaldano il cuore anche ai più duri. Guardo su internet come si dice "grazie" e "buongiorno" in polacco.
Il giorno dopo finito il meeting devo prendere un taxi e per andare in aeroporto. Ho i minuti contati. Salgo sul taxi e inizio a parlare in inglese al taxista chiedendogli se per favore può fare il prima possibile per arriare in aeroporto perché ho un volo a breve. Il baffuto taxista, modello Lech Walesa di Solidarnosc per intenderci, mi guarda in cagnesco. Applica praticamente lo stessa reazione delle donne con le gonne e le calze pesanti. Non capisce una parla d'inglese. Faccio rewind, e dico "dzień dobry", mostro con le mani un aereo che decolla, e concludo con "dzięki". Lech Walesa sorride, e mette la quinta.
Davanti a me edifici che ricordano un passato rigoroso, concreto, austero. Dietro di me la città vecchia, interamente ricostruita dopo la seconda guerra. Comunque con le sue piazze, i palazzi colorati, e la musica per le strade la rendono bella, mitteleuropeamente affascinante.
Raggiungo la pensione che ho prenotato, e suono. Dopo un lungo momento d'attesa mi viene ad aprire un donnone che indossa una lunga gonna, calze di lana e maglione pesante. Mi saluta con un ghigno. La faccia è decisamente polacca, rotonda, con la fronte che si allunga sopra le ciglia, sguardo un po corvino, bella nel suo genere. Lei parla solo polacco e immagino mi stia dando il benvenuto. Probabilmente il migliore che conosce, ma a causa d'una lingua difficile risulta un benvenuto ostile, meccanico, quasi freddo. Ringrazio in inglese e la tizia s'incupisce. Mi fa avere un modulo da compilare con le mie generalità. Compilo il modulo e mi dice qualcosa che non capisco, me lo ripete accigliandosi, poi scrive un numero su un foglio. Capisco che vuole che saldi la stanza. Azzardo un "telematiko" nella speranza possa chiarire come intendo pagare. La situazione si complica, l'espressione facciale del donnone è inequivocabile, così gli faccio vedere la carta di credito, scuote la testa a mi fa vedere una banconota. Pago e mi da le chiavi della stanza.
Salgo in camera che praticamente risulta essere un appartamento con tanto di cucina. Il legno scricchiola sotto i miei passi, ma il rumore di questo parquet è inusuale, non fa "crick, crack", sembra un suono più polacco "crikawsky, crikowska".
Mi sciaquo, cambio e vado a fare un giro per procurarmi una cena.
Sono vicino al centro, ma comunque in una zona periferica. Alle 20:30 di un giorno qualsiasi è difficile trovare qualcosa di aperto. Ho voglia di stare leggero. Entro nell'unico locale che trovo. Il locale è vuoto, fatto questo culinariamente preoccupante, c'è una canzone in polacco di sottofondo che lo rende dannatamente triste. Dopo qualche minuto compare un donnone vestito con una lunga gonna, pesanti calze e maglione. Praticamente una sorta di sorella di quella che gestisce la pensione.
Non parla una parola d'inglese, non parlo una parola di polacco. Mi piazza in mano una lista. Per mia fortuna difianco ai piatti ci sono le foto. Tra stufati, goulasch, carni adagiate sopra letti di crauti, ci sono dei ravioli bolliti, li ordino e arrivano con una salsa e un generoso calice di birra. La salsa risulterà essere molto buona ma molto pesante. Di quelle che alle tre di notte ti svegliano per chiederti se preferisci farla ritornare definitivamente su, o sei proprio convinto di volerla mandare incoscientemente giù. Dopo un lungo tira e molla opto per tirarla su, almeno posso tornare a dormire.
Mentre sono preso da queste considerazioni gastro intestinali penso che è la prima volta nella mia vita in cui mi trovo a dover pensare di poter andare a vivere in un posto dove la lingua è un problema. Non si capisce niente, e questo va al di la delle mie note limitate capacità linguistiche. Così cerco di correre ai ripari. Anni di viaggi mi hanno insegnato che ci sono due parole che scaldano il cuore anche ai più duri. Guardo su internet come si dice "grazie" e "buongiorno" in polacco.
Il giorno dopo finito il meeting devo prendere un taxi e per andare in aeroporto. Ho i minuti contati. Salgo sul taxi e inizio a parlare in inglese al taxista chiedendogli se per favore può fare il prima possibile per arriare in aeroporto perché ho un volo a breve. Il baffuto taxista, modello Lech Walesa di Solidarnosc per intenderci, mi guarda in cagnesco. Applica praticamente lo stessa reazione delle donne con le gonne e le calze pesanti. Non capisce una parla d'inglese. Faccio rewind, e dico "dzień dobry", mostro con le mani un aereo che decolla, e concludo con "dzięki". Lech Walesa sorride, e mette la quinta.