È giugno del 2001, è una splendida mattina di sole a Lampedusa. Calogero è a Lampedusa da ormai cinque anni, e come tutte le mattine è al bar del porto. È appoggiato alla porta d'ingresso sotto la veranda a strisce gialle e bianche, e mentre beve il caffè scruta i movimenti delle barche. La stagione estiva è alle porte e tutto sembra scorrere come sempre, alcuni pescherecci stanno rientrando.
Oggi però c'è gran fermento ai tavolini del bar, non è per la solita partita a scopa, ma è per una notizia che è sulla bocca di tutti. Sembra che un’inchiesta pubblicata su "La Repubblica" abbia fatto chiarezza sul naufragio fantasma del Natale 1996.
Per molti anni nessuno aveva voluto crederci, era stata trattata da tutti come una delle tante storie dei pescatori. Del resto si sa che in mare sono costretti ad inventarsi storie per far passare il tempo. Grazie al lavoro caparbio e meticoloso del giornalista Giovanni Maria Bellu è venuto a galla il più grande cimitero del Mediterraneo. Decine e decine di scheletri avvolti negli stracci a 108 metri di profondità, nel punto del Canale di Sicilia dove da anni i pescherecci di Portopalo non andavano più per non rischiare di lacerare le paranze.
Nelle settimane dopo il Natale del 1996, nelle acque internazionali a diciannove miglia da Portopalo di Capo Passero, i pescatori nelle loro reti non pescavano sgombri, triglie, ma cadaveri, corpi ancora intatti di indiani, pakistani, cingalesi.
I pescatori terrorizzati dai ritrovamenti, e preoccupati che se avessero informato la capitaneria di porto la magistratura avrebbe sequestrato le loro imbarcazioni, avevano deciso di ributtare i corpi in mare, e non denunciare quanto scoperto. Non fu per mancanza di rispetto nei confronti dei morti ma semplicemente per proteggere il loro lavoro, unica fonte di sostentamento della zona.
Però Salvo non ce l'ha fatta più a tenere questo segreto. Una mattina con il suo peschereccio era andato dove gli altri si rifiutavano e aveva pescato la carta d'identità plastificata di Anpalagan Ganeshu, un ragazzo di 17 anni d'origine tamil, dello Sri Lanka. L’aveva conservata in fondo al comodino.
Indossare cose d'altri è una di quelle pratiche che uno non dovrebbe mai fare, significa portarsi addosso altre vite che potrebbero tormentarci.
Salvo aveva cercato di dimenticare quella carta d'identità, ma non riusciva a perdonarsi il fatto che dall'altra parte del mondo i genitori di Anpalagan potessero essere in pena per il loro figlio di cui non avevano più notizie dal Natale del '96. Alla fine decise di chiamare anonimamente "La Repubblica" e raccontare del macabro ritrovamento.
La notte tra il 25 e il 26 dicembre la Yohan, una nave da carico battente bandiera honduregna, aveva un appuntamento con un battello maltese identificato con la sigla F174. Il posto dell'appuntamento era stato stabilito in Latitudine Nord: 36, 25', 31'' e Longitudine Est: 14, 54', 34''.
Sulla Yohan c'erano 470 persone che volevano raggiungere l'Italia senza permesso di soggiorno.
Il mare burrascoso, le pessime condizioni della barca maltese, e il livello di alcol nel sangue dei due comandanti contribuirono a far collidere le due imbarcazioni. La F174 affondò, e 300 persone naufragarono. 283 morirono mentre una trentina riuscirono a salvarsi ritornando sulla Yohan.
I trafficanti ripartirono con la Yohan per la Grecia, dove scaricarono i superstiti, tenendoli però segregati in un casolare di campagna affinché non potessero parlare con nessuno. Un gruppo riuscì a fuggire, raccontarono quanto successo alla polizia greca. I loro racconti non vennero creduti, anzi furono arrestati ed imprigionati.
È giugno 2001, è la mattina della notizia della tragedia della notte di Natale del '96. Calogero ha finito il suo caffè da un pò, ha la tazza in mano, la gira nervosamente tra le dita. La gente che entra ed esce dal bar lo saluta con rispetto, lui fa cenni distratti, sente che il peggio deve ancora arrivare.
[capitoli pubblicati: http://breva-tivano.blogspot.com/search/label/ConLaTestaSottoIlMare]
Oggi però c'è gran fermento ai tavolini del bar, non è per la solita partita a scopa, ma è per una notizia che è sulla bocca di tutti. Sembra che un’inchiesta pubblicata su "La Repubblica" abbia fatto chiarezza sul naufragio fantasma del Natale 1996.
Per molti anni nessuno aveva voluto crederci, era stata trattata da tutti come una delle tante storie dei pescatori. Del resto si sa che in mare sono costretti ad inventarsi storie per far passare il tempo. Grazie al lavoro caparbio e meticoloso del giornalista Giovanni Maria Bellu è venuto a galla il più grande cimitero del Mediterraneo. Decine e decine di scheletri avvolti negli stracci a 108 metri di profondità, nel punto del Canale di Sicilia dove da anni i pescherecci di Portopalo non andavano più per non rischiare di lacerare le paranze.
Nelle settimane dopo il Natale del 1996, nelle acque internazionali a diciannove miglia da Portopalo di Capo Passero, i pescatori nelle loro reti non pescavano sgombri, triglie, ma cadaveri, corpi ancora intatti di indiani, pakistani, cingalesi.
I pescatori terrorizzati dai ritrovamenti, e preoccupati che se avessero informato la capitaneria di porto la magistratura avrebbe sequestrato le loro imbarcazioni, avevano deciso di ributtare i corpi in mare, e non denunciare quanto scoperto. Non fu per mancanza di rispetto nei confronti dei morti ma semplicemente per proteggere il loro lavoro, unica fonte di sostentamento della zona.
Però Salvo non ce l'ha fatta più a tenere questo segreto. Una mattina con il suo peschereccio era andato dove gli altri si rifiutavano e aveva pescato la carta d'identità plastificata di Anpalagan Ganeshu, un ragazzo di 17 anni d'origine tamil, dello Sri Lanka. L’aveva conservata in fondo al comodino.
Indossare cose d'altri è una di quelle pratiche che uno non dovrebbe mai fare, significa portarsi addosso altre vite che potrebbero tormentarci.
Salvo aveva cercato di dimenticare quella carta d'identità, ma non riusciva a perdonarsi il fatto che dall'altra parte del mondo i genitori di Anpalagan potessero essere in pena per il loro figlio di cui non avevano più notizie dal Natale del '96. Alla fine decise di chiamare anonimamente "La Repubblica" e raccontare del macabro ritrovamento.
La notte tra il 25 e il 26 dicembre la Yohan, una nave da carico battente bandiera honduregna, aveva un appuntamento con un battello maltese identificato con la sigla F174. Il posto dell'appuntamento era stato stabilito in Latitudine Nord: 36, 25', 31'' e Longitudine Est: 14, 54', 34''.
Sulla Yohan c'erano 470 persone che volevano raggiungere l'Italia senza permesso di soggiorno.
Il mare burrascoso, le pessime condizioni della barca maltese, e il livello di alcol nel sangue dei due comandanti contribuirono a far collidere le due imbarcazioni. La F174 affondò, e 300 persone naufragarono. 283 morirono mentre una trentina riuscirono a salvarsi ritornando sulla Yohan.
I trafficanti ripartirono con la Yohan per la Grecia, dove scaricarono i superstiti, tenendoli però segregati in un casolare di campagna affinché non potessero parlare con nessuno. Un gruppo riuscì a fuggire, raccontarono quanto successo alla polizia greca. I loro racconti non vennero creduti, anzi furono arrestati ed imprigionati.
È giugno 2001, è la mattina della notizia della tragedia della notte di Natale del '96. Calogero ha finito il suo caffè da un pò, ha la tazza in mano, la gira nervosamente tra le dita. La gente che entra ed esce dal bar lo saluta con rispetto, lui fa cenni distratti, sente che il peggio deve ancora arrivare.
[capitoli pubblicati: http://breva-tivano.blogspot.com/search/label/ConLaTestaSottoIlMare]