giovedì 10 aprile 2014

L'Everest è chiamato così in onore di Sir George Everest, che al servizio della corona britannica lavorò per molti anni come responsabile dei geografi britannici in India.
Ma la vetta più alta del mondo è chiamata dai tibetani Chomolangma "madre dell'universo" e Sagaramāthā dai nepalesi, che in sanscrito significa "Dio del cielo".
La solita storia, da una parte l'oriente, la spiritualità,  dall'altra l'occidente, la scienza.

 Nel 1953 Sir Edmund Hillary e Tenzing Norgay, sherpa nepalese, per la prima volta riuscivano ad arrivare in cima all'Everest, aprendo una via con uno passaggio in scalata, battezzato Hillary Step.
Nel 53 l'alpinismo era uno sport per romantici, una sfida a mani nude, in questo caso sarebbe meglio dire piedi nudi, tra l'uomo e la montagna. Non c'era la tecnologia che c'è adesso, il materiale da mettere sulle spalle era infinitamente più pesante, e soprattutto era una sfida era nei confronti dell'unknown, dell'ignoto, salutavi l'ultimo paese sherpa, Namche Baazar, e ti avventuravi in qualcosa che nessuno aveva mai descritto prima.
Il prossimo 12 Aprile Chiara ed io andremo ad annusare i piedi degli dei, andremo al campo base dell'Everest. Quando lo scorso Natale ho raccontato ai miei scarponi che avrebbero concluso la loro ventennale esistenza annusando i piedi di altri, degli dei e non i miei, mi hanno abbandonato in una passeggiata al Generoso, così per questo trekking ho dovuto comprarne di nuovi, sarà un battesimo di fuoco, un po come uscire con una donna per la prima volta ed avere appuntamento con Nicole Kidman. Trovare un paio di scarponi di qualità a Lisbona è di per se una impresa, qui sono specializzati in cose "pela praia", per tanto ad un certo punto pensavo di dover salire al campo base con le infradito.
Dal 1953 al 2014 la tecnologia ha fatto passi da gigante. Gli scarponi, la giacche, i maglioni che vestiamo abitualmente per andare al supermercato sono infinitamente di migliore qualità di quelli usati da Sir. Hillary, ma soprattutto la sfida non è più nei confronti dell'ignoto. L'Everest è una montagna studiata, raccontata in tutti i sui particolari. L'Italia ha una stazione di raccolta dei dati e google, con google view, sta mappando questa montagna.
L'Everest basecamp arriva a 5300 m, e nel trekking che faremo è previsto di salire su una vetta, il Kala Patthar alta 5600 m dalla quale sembra che si possa godere una vista incantevole sul Sagaramāthā. Ogni spedizione racconta le difficoltà che  occorre affrontare nel superare la soglia del 2.800 m, quando il nostro organismo inizia a soffrire il mal d'altura, ed in queste condizioni è difficile andare avanti. Testa, intestino e sopratutto pesantezza, quando non ci sono altro tipo di complicazioni, fanno desistere molte persone dalla volontà di arrivare in cima, ops ai piedi del Sagaramāthā.
In famiglia non passo per essere il più tiemoiso, infatti "fico com o plano B", che in termini di viaggio non ha niente da invidiare al piano A ;-)
Ho letto 'aria sottile' e sto leggendo 'High adventure'. A farmi capire perché questa impresa mi affascina ci hanno pensato proprio questi due libri. Infatti come raccontato da entrambi gli autori, nonostante la tecnologia a portarmi, forse, ai piedi del Sagaramāthā saranno ancora le mie gambe e la mia testa.
La sfida non è nei confronti della montagna, forse non lo è mai stata, salire al campo base la sfida sarà nei confronti di un altro tipo d'ingnoto, se stessi.
Beni, l'amico nepalese che ci farà da guida, inizia ogni email con Namaste "vedo il Dio che c'è in te", e termina con la promessa che dopo essere stato ai piedi del Sagaramāthā niente sarà più come prima. Non vedo l'ora.
Sdoganata la tecnologia, insieme alle foto di Chiara e questi racconti, provvedero' a pubblicare tweets con l'hash #glueverest.
Namaste!